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Cannabis. La testimonianza: «Da ex tossicodipendente ho i brividi se sento parlare di legalizzazione»

È stato tossicodipendente per una ventina d’anni, oggi è responsabile dell’Associazione Nazionale Genitori Lotta alla Droga (ANGLAD) di Roma, legata a doppio filo all’esperienza della Comunità di San Patrignano e nata nel 1995, pochi mesi prima della morte di Vincenzo Muccioli, che fece in tempo a “benedire” il progetto. Paolo De Laura ha 64 anni, di cui quasi trenta dedicati al recupero da qualunque forma di dipendenza: droga, alcool, gioco, internet. La discussione sulla cannabis legale è, per ora, rimandata alla prossima legislatura a seguito della crisi di Governo e del conseguente scioglimento delle Camera, ma la questione culturale di una possibile legalizzazione rimane più attuale che mai. Proprio su questo tema abbiamo dialogato con De Laura, che ha espresso la sua totale contrarietà per una serie di ragioni, provate anche sulla propria pelle: qualunque tipo di droga non è soltanto dannosa alla salute fisica e mentale ma non ha nulla di “creativo” o “ricreativo”.

Signor De Laura, cosa ne pensa di questa cultura politica volta a legalizzare la cannabis?

«Quando sento parlare di legalizzazione mi vengono i brividi. Negli anni ’70, si usava dire: “Chi si fa le canne, poi si fa le pere”. Questa forse è una forzatura, in compenso è vero che la quasi totalità di chi arriva al consumo di sostanze più devastanti, ha iniziato, guarda caso, con la cannabis. È incredibile sentire ancora oggi i discorsi che si sentivano negli anni ’70, quando si associava la cannabis a un momento di maggior aggregazione o di maggior creatività. Dire che la droga rende più creativi è la più grossa bestemmia che si possa sentire. Posso confermarlo io stesso che componevo ed eseguivo musica, prima ancora di iniziare a fumare cannabis a 13 anni. Oggi non c’è nessuna volontà politica di contrastare il fenomeno. L’agenzia per le tossicodipendenze è ancora chiusa. Il dipartimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, preposto al management, ha smesso di lavorare da nove anni».

A fronte, di questo abbandono istituzionale, qual è la situazione generale che lei riscontra sul campo?

«Il fenomeno è diventato ormai intergenerazionale e interclassista. La droga è come la livella di Totò, non guarda in faccia a nessuno. Riscontro che i negozi cannabis stanno chiudendo uno dopo l’altro, resistono solo i self service. Sa perché avviene questo? Me lo ha confermato un minore che abbiamo seguito: con 50 euro spesi in un cannabis shop, si acquistano droghe a bassissimo THC, quindi, chi le fuma non prova quasi nulla. Molti, allora, come questo ragazzo, preferiscono spendere quei 50 euro in piazza per sostanze illegali ma “da sballo”. È comunque passato il messaggio che drogarsi è lecito. Quello che noi raccogliamo come associazione è un problema che va molto al di là della droga, dell’alcool o del gioco. Assistiamo, cioè, al default delle famiglie (dove ormai circola pochissimo amore), al default della scuola (basti pensare che all’ultimo concorso per i precari, metà delle domande erano errate) e al default del lavoro che non raccoglie l’offerta. Il problema è sociale, è sistemico. Per queste nuove generazioni, già così affaticate dai problemi creati dal Covid (a partire dalla DAD che ha slatentizzato le menti delle persone “normali”, immagini quelle appesantite dal gioco, dall’alcool e dalla droga…), avanzare proposte criminali e devastanti come la legalizzazione della cannabis è come dare il colpo di grazia».

Molti insistono ancora sulla distinzione tra droghe “leggere” e “pesanti”: lei cosa ne pensa?

«Il concetto di droga “leggera” o “pesante” è uno specchietto per le allodole. Esiste semplicemente la droga. C’è quella che ti uccide in trenta secondi, come il crack o la cocaina e quella che ci impiega un po’ di più. Sotto l’effetto della cannabis, una persona non dovrebbe portare nemmeno una bicicletta. La cannabis produce alterate percezioni uditive e visive alla guida di moto, automobile o bicicletta, rende un pericolo pubblico: oltre che rischiare la tua vita, minacci anche quella degli altri. Dobbiamo ringraziare di trovarci in Italia: solo da noi esistono comunità e centri d’accoglienza come quello da me fondato. Basta attraversare il confine e non si trova nulla di tutto ciò. Viene da chiedersi, però, perché tutte le comunità terapeutiche sono gestite da privati. Non ce n’è una che sia co-gestita da una Regione, da un Comune o da un ente. Un problema che affatica terribilmente l’anima delle nuove generazioni è totalmente sulle spalle del terzo settore».

Al fondo, che problemi sociali riscontra?

«Bisognerebbe fermarsi un attimo e riscoprire le priorità. La mia generazione aveva delle cadenze, delle tappe e dei punti di riferimento obbligati nella crescita e nell’emancipazione. Per le famiglie cattoliche, c’erano i sacramenti dell’iniziazione cristiana: battesimo, eucaristia, cresima. Il diploma, poi, era una tappa obbligata, il percorso di studi, giocoforza andava completato, non come oggi, che ci sono sempre meno diplomati, per non parlare dei laureati. Io stesso, che vengo da una famiglia nobile, ho studiato dai gesuiti e di mestiere faccio il restauratore di mobili, sono arrivato a due esami dalla laurea in arte moderna ma purtroppo la droga mi ha distrutto la vita. Per i ragazzi, c’era il servizio militare. Sono andati perduti tutti quei punti di riferimento che accompagnavano un percorso di crescita, fino all’affermazione con il lavoro, con il matrimonio e dei figli. Glielo dice uno che è stato allontanato dal nucleo familiare, interdetto, diseredato, privato della patria potestà, che all’amore della compagna e del figlio ha sempre preferito eroina e cocaina: neanche dopo tutto questo mi sono fermato. La prima cosa che impatta nelle dipendenze patologiche è che si smette di amare e di ricevere amore: eppure noi siamo stati messi al mondo per questo».

Ora la legislatura si è interrotta e si andrà alle elezioni. Non ci sarà più, dunque, una discussione imminente in Parlamento. Ma se dovesse lanciare un messaggio alla politica e a chi farà parte del prossimo Parlamento cosa direbbe?

«Mi è già capitato di parlare alla sala stampa della Camera dei Deputati. Oggi, come allora, ribadirei lo stesso messaggio: la droga, qualunque sia il suo nome e la sua modalità di assunzione, è sempre inutile. Usando stupefacenti, l’uomo perde la libertà di pensiero e di azione. Mi creda, io, per colpa della droga, ho distrutto la mia esistenza. Mio padre è morto quando avevo 14 anni, ma già da un anno fumavo marijuana e consumavo allucinogeni: eppure mio padre era ancora vivo e non avevo alcun trauma da superare. Ai tempi si parlava di droga come trasgressione, oggi mi verrebbe da dire che i trasgressivi sono quelli che gli stupefacenti non si usano. La droga è l’abbattimento di qualunque afflato della mente e dell’anima che possa albergare nell’anima degli uomini: glielo dice uno che su quell’altare ha sacrificato la sua vita. Tutto quello che ho fatto negli ultimi 27 anni è stato per evitare che nuove generazioni non debbano patire quello che ho patito per una mia scelta sbagliata».

Fonte: provitaefamiglia.it

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